lunedì, settembre 10, 2007

La creatività mattutina


Questa mattina mi sono svegliata con la gola che andava a fuoco; colpa delle sigarette che negli ultimi 4 gg sono tristemente aumentate. Ma si sa che vado a periodi con il fumo. E questo è uno di quei periodi in cui mi vien voglia dalla mattina.
Comunque sia, mi sono alzata dal letto, ho fatto pipì, ho fatto il caffè, ho preparato metodicamente il mio angolo di tavolo per la colazione e mi sono messa ad aspettare che le fette di pane morbido tostassero a puntino (Vi spiegherò in un apposito post in cosa consiste la mia colazione).
E aspetta aspetta… mi sono messa a pensare! - Pratica per me inevitabile in quel momento mattutino - .
Ed ho pensato all’insana necessità di definire nominalmente i rapporti; etichettare, insomma.
La teoria da me formulata durante l’intera durata della colazione - e anche oltre – è scaturita dal considerare quante volte ho visto persone relazionarsi armoniosamente, finché la perversa necessità di definizioni prese dal vocabolario non sopraggiunge a far formulare, ad una delle due anime coinvolte, la fatidica domanda “Ma io e te cosa siamo?”.
A questo punto, non potendo, ma in realtà non volendo – che sarebbe anche un desiderio lecito -, definire la cosa, il destinatario del quesito si ritira sul cucuzzolo della montagna snocciolando all’altro le più assurde spiegazioni che vanno dalla legge del kharma alla filosofia Zen.
E il resto è non-storia.
Dopo essermi immaginata brevemente la scenetta che ho descritto usando, ovviamente, personaggi a me molto ma molto noti, ho continuato a riflettere.
Sono andata a fare la doccia e, tra un ritornello e l’altro, riflettevo.
Perché? Perché si sente l’impellente necessità di attribuire un nome a ciò che, in termini generali, due persone fanno o si dicono?
La risposta che mi è venuta in mente a primo acchito è stata “Questione di insicurezza insita nella natura umana nella misura in cui ci sentiamo ontologicamente uomini”.
Bisogno di certezze, quindi.
Ora, essendo noi esseri pensanti, possiamo per un attimo ragionare su una questione: se io e te siamo legati in un rapporto che, se pur indefinito, ci dà qualcosa che fondamentalmente ci fa star bene; se io e te, se pur persone che si proclamano – magari orgogliosamente – single, ci sentiamo come legate in una relazione esclusiva; se io e te, se pur maledicendo entrambi quel giorno, ci siamo ritrovati per caso dopo anni di educata indifferenza reciproca e per altre volte ci siamo allontanati rimanendo, comunque, immobili nello stesso punto aspettando che l’altro tornasse indietro; se io e te pensiamo di aver trovato la persona potenzialmente perfetta con la quale poter, perlomeno, tentare di pensare di realizzare anche solo una piccola parte dei progetti inerenti alla vita privata; se io e te abbiamo condiviso anche i momenti del quotidiano dedicati ai bisogno fisiologici meno entusiasmanti, eppur abbiamo riso; se io e te abbiamo perso ore ed ore di sonno – e qualche etto magari – rimanendo, comunque, carichi di entusiasmo cantando per casa magari la nostra canzone; se io e te non siamo interessati a nessun altro ci giri intorno, se pur di variegata specie e qualità; se io e te, insomma, siamo io e te nella nostra specificità di coppia intesa come l’insieme di due entità e, nel nostro essere ufficiosamente coppia, ci sentiamo semplicemente bene e solo a tratti confusi, allora mi chiedo “Perché etichettarci?”, “Perché dover trovare una parola che faccia capire agli altri ciò che noi sentiamo di essere?”.

Alla fine di questo ragionamento, tutta impettita e soddisfatta di me, mi è venuta in mente un’ulteriore domanda che riporta inevitabilmente alla prima: “E se ci etichettassimo non per far capire agli altri, ma per far capire a noi stessi?”

Quindi: bisogno di certezze, appunto.

E la certezza, allora, non possiamo magari trovarla in ciò che, se pur indefinito, ci ritroviamo a voler essere in modo visibile e tangibile, palpabile e anche sensibile a quel muscolo nel petto?
O pensiamo che soltanto una parola, o tante parole sintatticamente organizzate, possano darci la certezza di cui abbiamo bisogno?

Ovviamente, ad ogni “se io e te” dovete mentalmente premettere un PUTA CASO.

Buona settimana, cari loopati!

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Dunque.
Mentre leggevo pensavo
"ahpperò come scrive bene la tipetta qui.."
e poi subito dopo:
"mi sono persa.. no ecco.. trovato.. mmm.. cos'è che voleva dire.. :p"
Scherzi a parte, leggendolo mi son sentita tra quelle che hanno bisogno di etichettare, non tutto, quello non credo. Ma i rapporti sì.
Anche se dopo l'unica volta che ho provato a chiederlo all'altra persona e di rimando mi son sentita rispondere "se vuoi sapere se stiamo insieme, la risposta è no..", ecco..anche se dopo quella volta ho sempre evitato di chiederlo. E mi scervellavo per cercare la risposta da sola, interpretando i segni dell'altro..
Lo si fa. Forse per sapere fino a che punto si può andare? Per mettersi dei limiti? Per non stare male se poi ci si illude, si crede, si spera di aver capito bene?
mmm.. ma non credo che tu voglia sapere questo. Queste cose le sai benissimo anche tu.
Se due persone però sanno già cosa sono, non importa etichettarsi. Anche se forse, sapendolo, lo hanno già fatto.. e... oh bè, sono emozionata perchè sto commentando sul tuo bloooggghe e..
imparerò.

Me

pathos ha detto...

I limiti limitano, ovviamente. E perchè limitarsi? Solo per non stare ipoteticamente male? E allora per evitare il danno non agiamo?
No, io dal canto mio preferisco buttarmi, godere dell'emozione del volo e poi...sperare che si apra almeno il paracadute di riserva!
Se, puta caso, io e te sappiamo già cosa siamo, allora non facciamoci altre domande e continuiamo a ricordarcelo in silenzio, nei gesti e negli sguardi o con le parole. Ma che non siano mai troppe.